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B”H

Daniela Abravanel

Scuola di Torah e Cabalà

 

I sei precetti della consapevolezza

B”H

 

I saggi dell’ebraismo hanno sempre parlato del ruolo centrale della mente nel cammino spirituale e nella vita stessa: in breve, essa può essere assoggettata e asservita alle emozioni inferiori (e fornire all’uomo le più intelligenti razionalizzazioni per il proprio comportamento) oppure può diventare strumento dello spirito.

Oggi la conquista della salute fisica e psicologica dipende quasi interamente dal livello di controllo che abbiamo sui nostri pensieri. Per questo motivo vorrei dedicare un ampio spazio di discussione, nei miei futuri interventi, al ruolo della conquista di una “mente buona” (Sekhel Tov, come nel linguaggio dei Salmi).

 

Come insegna la Chassidut[1], chi è un “Re” “MeLeKh”? E’ colui che ha messo nel giusto ordine le lettere che ne compongono il nome - M/L/K, ovvero: 1. mente - Moach, 2. cuore - Lev, 3. fegato - Kaved. Se non si è riusciti a far trionfare la mente sui condizionamenti della psiche-cuore e sugli istinti inferiori del fegato (istintualità), si diventa invece che re, LKM (stolti): si avrà l’impulsività di cuore (Lev) e di fegato (Kaved) che governano la nostra mente (Moach) e di conseguenza anche la nostra vita.

 

In queste pagine vorrei dunque proporre una riflessione personale su insegnamenti di grandi maestri che ho avuto modo di conoscere in questi anni in Israele, spesso comparando i loro insegnamenti, forse in maniera un po’ eclettica, ma sicuramente in sintonia con il bisogno attualmente sentito dai più, di integrazione tra approcci diversi:Torah shemà mashivat nefesh, una Torà[2] “completa” (olistica) è capace di restaurare e far rivivere l’essere umano grazie alla sua capacità di integrare vari aspetti dell’esistenza.

Per questo ho spesso messo a paragone in queste pagine il pensiero scientifico cabalistico di Susan Schneider, l’insegnamento umano psicologico di Noah, allieva della grande psichiatra Iemima, e quello di altri Maestri dell’ebraismo.

 

Vorrei iniziare questo primo numero con lo studio di sei importanti mitzvot (precetti) della Torà che fanno parte di quelle mitzvot che riguardano la consapevolezza, e che secondo i saggi sono da mettersi in pratica COSTANTEMENTE (diversamente dalle altre mitzvot legate a momenti particolari: ad esempio le benedizioni per il cibo, quelle associate alla vista di un arcobaleno, di un lampo, legate ad una determinata festa ebraica oppure le mitzvot quotidiane come la preghiera dello Shemà, l’Amidah etc.).

 

Queste sei mitzvot di cui tratteremo riguardano invece la conquista della nostra mente, il ritrovamento di quel filo di Arianna che ci fa risalire dalla nostra mente al Divino, dentro e fuori di noi. 

E’ scritto nei Salmi: “Sekhel Tov le kol osseihem…” “Chi li mette in pratica (gli insegnamenti) conquista una mente “buona”, un pensiero chiaro e cristallino capace di generare armonia dentro e fuori di sè”.

 

1 - La prima di queste mitzvot è

“Io sono il Tuo Dio che ti ha tratto fuori dalla terra d’Egitto”.

Questo verso chiaramente non ci sta dicendo di fare qualcosa di specifico. In realtà esso sta proclamando una verità: l’uomo che cerca di avvicinarsi a Dio e alla perfezione deve riconoscere che il primo aspetto in cui la divinità si è manifestata al popolo ebraico, e in cui si manifesta quotidianamente a noi (e in noi), sta nel potere di superare, di trascendere i limiti. La parola Egitto in ebraico infatti significa luogo stretto, limitato. Il Dio di Israele è un Dio che ci porta oltre i limiti della nostra personalità.

Ma questo primo insegnamento non sta solo nel  credere che esiste tale Dio, ma di credere di avere la forza di realizzare lo script, il programma divino che Egli prevede per noi, per la realizzazione della nostra anima e del suo specifico compito storico e spirituale.

Il re David in due versi concisi esprime il concetto che Dio è attivo e presente nella parte più elevata della nostra anima: “Hine bati le meghilat sefer katuv alai”…”ecco, sono giunto a realizzare, in ogni dettaglio, il libro, la meghillà scritta riguardo a me, riguardo alla mia evoluzione spirituale”.

 

Il termine “meghillà”, il libro che si srotola, è l’immagine più adeguata a rappresentare il cammino spirituale che ogni giorno ci rivela un nuovo aspetto di quel “lavoro” spirituale, psicologico che siamo chiamati a fare per raggiungere la realizzazione.

 

Esso allude alla costanza, alla continuità dello sforzo di conquista di una mente nuova e buona, del Sekhel Tov che conquistano coloro che accettano l’idea che il raggiungimento della “mente buona” è possibile solo se ogni giorno, con disciplina e costanza, accettiamo il compito di ripulire dalle erbacce il giardino della nostra coscienza. Senza scoraggiarci se all’inizio guardare la nostra mente con oggettività ci spaventa: quanti “serpenti”, “vermi”, quanti rovi, quanti pensieri distruttivi, quanti condizionamenti mentali ereditati (in questa e in altre incarnazioni) da dover sradicare per poter arrivare ad avere un vero giardino, una mente “coltivata”.

 

Eppure la Torà ci dice che il vero lavoro spirituale sta proprio in questo: la trasformazione personale. La graduale conquista di un altro metro di consapevolezza, e poi un altro ancora. Ogni successo va notato e va annotato (i maestri insegnano che solo scrivendo si può veramente integrare dentro di noi le informazioni che andiamo man mano scoprendo). Se non c’è Binà, l’atto di intelligenza creativo e oggettivante, il lampo dell’intuizione di Chokhmà (della Sapienza), dopo averci momentaneamente illuminati, se ne ritorna in Alto, e noi non siamo capaci di far sì che l’insegnamento che Dio nella sua generosità ci ha donato metta radici in noi e ci porti la trasformazione.

 

Per fare un esempio pratico. Dopo aver appreso che il controllo del livello di ansia è una prescrizione fondamentale della Torà (vedi il verso dei Salmi: abbi fede in Dio e trova, cerca, semina, ovunque vai, segni che rafforzino la tua fede: “btah be Hashem u ree emuna”), ci si trova di fronte a un evento al quale non riusciamo a reagire senza i nostri soliti meccanismi di difesa anti-ansia (il cioccolatino, la televisione, la telefonata all’amica, al rabbino, allo psicologo, etc.). Finalmente un giorno l’insegnamento dei maestri mette radici abbastanza forti nella nostra coscienza da permetterci di reagire diversamente. Di fronte a un pensiero che ci spaventa reagiamo con distacco. Guardiamo il vecchio ben noto script della “bambina spaventata” che entra in azione in noi, e reagiamo da un punto di vista più maturo del suo. Respiriamo profondamente, ascoltiamo un pezzo di musica che ci rilassa, o facciamo un gesto che ci connette alla nostra interiorità, a quel luogo dentro di noi dal quale possiamo sentirci al riparo (uno dei versi dei salmi parla di Dio  e dell’attività spirituale che ci avvicina a Lui in questi termini: “Maon Haita Lanu”: Dio, Tu sei stato per noi un luogo in cui ripararci).

Ebbene, se siamo riuscite finalmente a superare la prova dell’ansia, dobbiamo immediatamente inscrivere tale successo nella nostra coscienza. E il modo migliore per farlo è SCRIVERLO (in un apposito diario dedicato ai nostri progressi spirituali…e anche alle cadute e risalite…), registrare il nostro successo sulla carta e quindi nel computer della nostra mente. Se non gli diamo la forza di questo “imprinting”, il nostro successo verrà immediatamente cancellato dalla memoria la prima volta che ricadremo preda dell’ansia, e del suo triste messaggio per la nostra coscienza: non ce la farai mai!!! A tale messaggio noi rispondiamo rileggendo, nella nostra mente e nel nostro diario, tutte le volte che invece ce l’abbiamo fatta. Poco a poco riusciremo a convincere la mente e l’inconscio che abbiamo la forza per reagire in modo diverso.

 

2 - La seconda mitzvà è: “Non avrai altri dei”

Vari maestri hanno commentato che gli altri dei sono i falsi bisogni (diventare milionario, o desiderare la seconda o la terza casa per le vacanze e altro ancora.), le false sicurezze (i rapporti di dipendenza, vuoi con il partner, con il boss di lavoro, con lo psicologo, o addirittura con il proprio maestro spirituale…questo ultimo in particolare può bellamente spodestare il Sé dell’allievo, che finisce per non credere nel suo potere spirituale, nell’abdicare la possibilità di un personale contatto con la divinità). Ma in particolare il dio più grande e pericoloso che noi tutti dobbiamo imparare a lasciare andare è il nostro io, il suo testardo attaccamento ai suoi “programmi”, e la sua caparbia resistenza a restare tale quale.

Il faraone, quando Mosè gli parlo di Dio, rispose di non “conoscere” il Tetragramma. Di essere lui stesso dio… Ed effettivamente molte persone vivono in questa condizione di “idolatria”, nella convinzione di essere vivi, di avere successo, di poter respirare in maniera “autonoma”, senza chiedersi cosa accadrebbe nel momento che  Dio (quello vero) decidesse di tagliare loro il  “cavo dell’ossigeno”…..

 

3 - La terza mitzvà è “Amerai il tuo Dio”

Amare Dio significa desiderare di entrare in contatto con quella parte della Divinità che è a noi accessibile. Scrive Rabbi Zaddok Ha Cohen:

 

“La Shekhinà[3] è quell’aspetto della divinità che risiede nel cuore di ogni uomo…che lo dirige costantemente verso la crescita costante, e verso la realizzazione del suo Destino. La Shekhinà, come una madre che prende in braccio il suo bambino, ci eleva, spingendoci gentilmente ma ininterrottamente a scegliere la strada dell’elevazione…”

 

Questo è l’aspetto della divinità che è più facile da avvicinare e da amare. Essa, scrive Susi Schneider, è l’archetipo femminile, che accetta i limiti di ogni creatura, con le nostre imperfezioni. Essa ci nutre, apprezza la nostra bellezza, le parti più evolute della nostra psiche. Diversamente dall’aspetto maschile della divinità, essa non giudica, non si impone, e non ci spaventa e intimorisce. Essa aspetta pazientemente e tranquillamente che le si faccia posto, che la si lasci entrare, si muove attorno a noi con grazia, armonia e amore incondizionato.

 

Secondo Noah una via della realizzazione spirituale sta nel contattare dentro di noi questa madre che accetta, che nutre. Di imparare a farci del bene, di dare a noi stessi il giusto nutrimento, fisico o spirituale, di concederci momenti di gioco e di serenità. Di entrare in contatto con il buono che c’è in noi e di non prestare troppa attenzione alla parte di noi che invece è un po’ “marcia”…Più infatti le si da spazio, e attenzione,  più essa prende le redini della nostra vita!

 

Se nel lavorare al nostro nuovo “giardino” non guardiamo con gratitudine e felicità ogni nuovo fiore che sboccia, e ci lasciamo spaventare dalle erbacce, non troveremo la forza di continuare ripulire e piantare. Più azioni positive facciamo, verso noi stessi o verso gli altri, più piantiamo fiori, più portiamo via terreno alla negatività…E’ questa la ricetta per tenere acceso in noi l’amore per Dio,  l’amore per quella meravigliosa scintilla di divinità che vive in ognuno di noi…

 

4 - La quarta mitzvà è “Temerai il tuo Dio”

Come dice Susy, l’ebraismo per circa 3500 anni si è concentrato soprattutto su questo aspetto della Divinità, maschile e severo. Solo negli ultimi 250 anni con la Chassidut si è iniziato a riscoprire il ruolo della Shekhinà, della quale comunque vi erano abbondanti riferimenti nel Talmud, nei midrashim e nello Zohar.

 

Diversamente dalla New Age (che rifiuta completamente di fare qualcosa per “timor di Dio”), il rapporto con la Shekhinà  riguarda anche la sfera del timore: non la paura della punizione, ma il timore di intaccare, con la nostra imperfezione, il rapporto col divino.

Questa forma di timore ha una funzione chiave nello sviluppo spirituale. Infatti poiché la trasformazione personale, che è l’obiettivo primo della ricerca spirituale, non è un gioco da ragazzi, la forza dell’abitudine e il desiderio di agio si oppongono ai nostri sforzi con veemenza  prevaricatrice. Questo poiché l’opera di trasformazione richiede costante sforzo e auto-sacrificio, e ciò va contro gli interessi della forza dell’abitudine, del quieto vivere (o “dormire”…).

 

Se una persona crede, come nel caso del New Age o del Cristianesimo, di poter essere amato dalla Shekhinà incondizionatamente, sia che si applichi al lavoro di trasformazione con dedizione sia che indulga nelle sue debolezze, perché dovrebbe fare troppi sforzi ?

Così come nei rapporti personali, se non vi fosse una certa paura di perdere l’oggetto d’amore si rischierebbe molte volte di restare pigramente gli stessi, senza ascoltare gli inviti dell’altro a cambiare per difendere la sopravvivenza di un rapporto, così nel rapporto con il divino non ci si può limitare a “amare” Dio, bisogna “temerlo”. Temerlo sia nel suo aspetto maschile, descritto in termini del “fuoco che divora” tutto ciò che devia dai suoi standard di perfezione e di verità (che richiede il raggiungimento dell’ideale assoluto di perfezione), sia in quello femminile sopra citato.

 

Scrive Rav Zadok Ha Cohen rispetto al rapporto con la Shekhinà:

 

“Si dovrebbe meditare su quel punto di vita eterna che vive dentro di noi e capire che esso è parte di quella Fonte di Vita che riempie e circonda tutti i mondi (“Ani Hashem shahanti be toham”: Io sono Dio che vive dentro di voi”). La comprensione che un “pezzo di Dio, per modo di dire, sia veramente presente dentro la nostra anima” dovrebbe incutere in noi  un senso di tale riverenza da farci tremare al solo pensiero delle sue implicazioni. Chi, di fronte a questa riflessione non è preso da un senso di tale riverenza e timore, non ha veramente assorbito e compreso tale pensiero in tutte le sue implicazioni”.

Temere Dio significa quindi, oltre alla paura della sua punizione (vuoi vissuta a livello karmico in questa vita o in una prossima  incarnazione, o come perdita dell’olam ha-ba, il “mondo a venire”), la paura della perdita di quel rapporto di amore e di intimità con la Divinità citato prima.

 

5 – La quinta mitzvà è “Shemà Israel Hashem Elo-heinu, Hashem Echad”

“Ascolta Israel, il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno”

 

Lo Shemà Israel, la prima preghiera dell’ebraismo, vuole soprattutto portarci alla consapevolezza che Dio è tutto quello che ci accade, egli è la Vita stessa.

E lo Shemà, secondo il Baal Shem Tov, ci dovrebbe ricordare il versetto dei Salmi “Shiviti Hashem le negdì tamid” “Ho posto Dio di fronte a me sempre”: in ogni situazione dover capire che c’è dietro la “mano” di Dio. E la parola shiviti (ho posto) ha come radice la parola Shavè che significa anche “uguale”. Ovvero nel cammino spirituale dovremmo cessare di dividere gli eventi in buoni e cattivi. Dovremmo capire che essi sono tutti, egualmente, “insegnamenti”, e in questo senso l’accento non va più posto nel loro essere gradevoli e auspicati o meno, ma nel fatto che ci stanno portando un insegnamento.

 

Se non riusciamo, di fronte a qualcosa che ci disturba, a fare un passo indietro, per avere una prospettiva un pò più larga di quella del nostro io frustrato, non riusciremo a far tesoro dell’evento sgradevole al fine che esso non si verifichi più.

 

Shmà, secondo il rabbino Uri Revah, vuol dire, come insegnano le sue lettere:

Shhh  fai silenzio dentro di te,

Ma (cosa?)  chiediti “Ma”, cosa vuole dire ciò che sta accedendo?

Ain (occhio)  apri gli occhi alla verità e all’insegnamento che Dio in ogni momento ti sta offrendo.

 

6 – La sesta mitzvà e “Lo taturu aharei livavehem ve aharei einehem”

“Non seguirete i vostri cuori e i vostri occhi”

Questo verso dello Shema pare invitarci, apparentemente, a non seguire il nostro cuore. Il verso però non parla di un cuore, ma parla al “plurale”,  di vari “cuori”, gli uni divisi e non integrati con il resto della nostra personalità. Questi “cuori” disintegrati gli uni dagli altri non rappresentano  l’intuizione precisa e corretta del cuore rettificato (del cuore che è uno e non diviso tra diversi bisogni e desideri, il cuore che è in linea con la Volontà dello spirito dentro di noi.….), “il lev mevin daat”, “il cuore che comprende”, che giunge alla vera conoscenza, di cui parla la Cabala.

 

Ebbene questa sesta mitzvà parla del dovere di proteggere la nostra vita dai pensieri che vengono da un’emozionalità non equilibrata , fuorviata e fuorviante (…che ci fa “prostituire”) da condizionamenti del nostro vissuto che ci mettono in stato di ansia, paura, depressione e che non ci permettono di funzionare e di agire al livello del nostro io superiore e divino.

Come dice Allan Afterman: “….la battaglia per la mente è la battaglia per i contenuti delle sue immagini. In realtà è la battaglia per l’essenza stessa della persona che è  là dove si trovano i suoi pensieri”.

 

I pensieri fuorvianti non ci sconnettono solo dal Padre celeste, ma da quella scintilla divina che è in noi, che richiede, per sopravvivere, che i suoi bisogni di raccoglimento e di pace vengano tenuti in conto.

Per fare qualche esempio pratico: qualcuno ci manca di rispetto, addirittura calpesta la nostra sensibilità. Possiamo reagire tenendo conto dei bisogni dei nostri “cuori” (come si permette? Adesso gli insegno come ci si comporta..…), oppure tenendo conto del bisogno del nostro Sé, di evitare di sprecare energie, di perdere il nostro centro in discussioni che probabilmente non avranno l’esito che ci aspettiamo, e che avranno come unico risultato di  svuotarci della forza faticosamente accumulata…Come diceva Carlos Castaneda, il cammino spirituale necessita energie. Dobbiamo fare molta attenzione a non sacrificarle per accontentare i bisogni del nostro Sè inferiore.

 

Daniela Abravanel –Migdal Israele febbraio 2002

e-mail: hallel@bezeqint.net

 



[1] Chassidut: filosofia chassidica. Corrente di pensiero mistico derivata dal movimento fondato dal Ba’al Shem Tov.

[2] Torà: lett. insegnamento, Legge. La parola indica i cinque libri del Pentateuco (Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio) che contengono la Legge mosaica; per estensione vengono chiamati Torà tutti i testi della tradizione ebraica.

[3] Shekhinà: Presenza divina, che al tempo del primo Tempio risiedeva nella parte denominata Santo dei Santi. Oggi, benché non esista più il Tempio, accompagna gli ebrei ovunque si trovino.